4 November, 2024
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L’Autonomia riconosciuta a noi sardi in Costituzione ha ragioni molto diverse da quelle che oggi sono alla base del recente disegno di legge sull’“Autonomia differenziata”. La prima fu approvata per generare coesione nazionale e sussidiarietà. La seconda invece pare avere principi e finalità differenti.

L’Autonomia sarda derivò dall’esperienza di tre secoli di sottomissione alla Spagna, da un secolo di resistenza ai piemontesi e da un altro secolo di guerre e battaglie per fare l’Italia. I sardi inventarono l’“Autonomia” per porre fine alla povertà indotta dal feudalesimo. Nei tre secoli in cui la Sardegna era stata sottoposta al dominio spagnolo, la sua amministrazione era basata su una gerarchia molto semplice.

Esisteva il “vassallo” del re che, per diritto feudale, era proprietario di tutto: delle terre, delle persone, degli animali, dei mari e dei pesci, dei boschi, insomma di tutto. L’economia era semplicissima: dentro il feudo avvenivano la produzione, il consumo e la vendita o lo scambio dei prodotti della terra; il commercio finiva lì. In un sistema economico e culturale chiuso, senza scambi col mondo esterno, la povertà era assicurata. Una siffatta povertà si è poi radicata in modo strutturale e persistente. Fino all’anno 1714 la Sardegna e il ducato di Milano furono parte integrante dell’impero spagnolo. Il regime di controllo politico a cui erano sottoposti i sardi e i milanesi era simile, ma in Sardegna la vita era infinitamente peggiore. Nel 1702, dopo la morte dell’imperatore di Spagna Carlo II, che non lasciava eredi, era scoppiata una guerra di successione terrificante tra la Francia e il resto d’Europa (Inghilterra, Sacro Romano Impero e piccolo Ducato di Savoia). Alla fine, con il trattato di Ramstatt del 1714, l’impero spagnolo venne spezzettato. Con la spartizione la Sardegna venne assegnata al duca di Savoia, il Lombardo-Veneto invece venne assegnato agli Austriaci.

La nobiltà sarda, di genealogia spagnola, mantenne in vita il regime feudale con le note conseguenze sociali, economiche e culturali di arretramento. Il Lombardo-Veneto invece fu molto più fortunato perché, nonostante mancasse la libertà politica, il regime feudale finì e l’economia, la burocrazia, la cultura e l’organizzazione sociale si adeguarono all’evoluzione post-feudale di tutta l’Europa.

Fino al 1730 circa il duca di Savoia evitò di interessarsi di Sardegna ignorando lo stesso titolo di re che gli era piombato addosso. Dal 1730, con l’intervento del primo viceré sabaudo barone di Saint Remy e, soprattutto, dal 1756 con l’opera riformatrice del conte Lorenzo Bogino, iniziarono i cambiamenti. Fu soprattutto con la nuova cultura illuminista, che proveniva dalla Francia, che i sardi cominciarono a prendere coscienza dei diritti naturali dell’Uomo e del Cittadino. A Cagliari, alla fine del 1700, nel rione di Stampace, si formarono in segreto circoli illuministi di stampo giacobino e iniziò a prendere corpo l’idea di autogovernarsi secondo i principi di uguaglianza e di libertà. Contemporaneamente esisteva un vasto movimento autonomista in Corsica alimentato da Pasquale Paoli e si instaurarono contatti fra i movimenti delle due isole. Pasquale Paoli dapprima combatté i Genovesi per liberare la Corsica dal loro dominio, poi si ribellò anche ai Francesi, divenuti i nuovi padroni. Quella ribellione non si è mai spenta completamente tanto che Paoli tutt’oggi è considerato il padre della patria corsa. Similmente anche i sardi rifiutarono di finire sotto il nuovo padrone francese, e successivamente cacciarono i Piemontesi maturando l’idea di Autonomia del popolo sardo. Tutto iniziò nel 1793. A gennaio di quell’anno le navi da guerra francesi inviate dal Comitato rivoluzionario di Salute pubblica di Parigi, al comando dell’ammiraglio Truguet, occuparono le isole di Carloforte e Sant’Antioco. Come primo atto gli occupanti-liberatori vi fondarono la prima repubblica italiana: “La Rèpublique de la Libertè”. I Carlofortini, dapprima accettarono, ma i Calasettani e gli Antiochensi no.

Una volta occupate militarmente le due isole sulcitane, le truppe francesi iniziarono la marcia su Cagliari passando dall’istmo di Santa Caterina. Allorché le truppe si inoltrarono nell’istmo vi fu un’incredibile reazione da parte di sei abitanti della zona che, saltati a cavallo e caricati gli schioppi, attaccarono i soldati francesi e in men che non si dica ne uccisero 20. Il fatto interruppe l’avanzata francese e dette tempo al cavalier Camurati, piemontese, di organizzare le sue truppe nella terraferma e di ricevere l’appoggio di armati inviati dalla curia di Iglesias. Questi erano una milizia privata bene armata e, infervorati fa un frate guerriero, un tal padre Arrius, erano pronti a tutto, pur di fermare i francesi rivoluzionari anticlericali. L’ammiraglio francese, vista quella micidiale resistenza, dimise subito l’idea di raggiungere Cagliari per quella via, reimbarcò le truppe sulle navi ancorate nel Golfo di Palmas e procedette per via mare. Dopo pochi giorni la flotta da guerra francese cannoneggiò Cagliari e sbarcò le sue truppe d’assalto nella marina di Quartu. Le guardie svizzere che proteggevano il Castello di Cagliari, si asserragliarono chiudendo i ponti levatoi. Il popolo, lasciato solo, si armò e, organizzato da leaders improvvisati come Vincenzo Sulis e Girolamo Pitzolo, sorprese i soldati invasori nelle paludi di Quartu e del Poetto e ne fece strage. I Francesi rinunciarono e ripartirono. In quelle due battaglie, quella di Santa Caterina nel Sulcis e quella di Quartu, si era manifestata, dopo molti secoli di rassegnato torpore medioevale, un nuova entità guerriera che avrebbe fatto la storia: il “popolo sardo”.

Il re piemontese in tutta risposta premiò le guardie svizzere che si erano asserragliate in Castello e ignorò il popolo che aveva difeso sé stesso e anche la sede del viceré Balbiano. I coscritti dei circoli stampacini, approfittando dei meriti maturati in quel momento, organizzarono un Commissione per chiedere udienza al re a Torino e proporgli le cosiddette “cinque domande”. Si trattava di richieste apparentemente molto semplici ma che contenevano fondamentalmente il riconoscimento e la legittimazione del “popolo sardo” come nuovo soggetto da prendere in considerazione e introdurre nell’apparato per l’amministrazione e la difesa della Sardegna. Si trattava, di fatto, del primo abbozzo scritto dell’idea di “Autonomia” sarda. Il re Vittorio Amedeo III, molto regalmente, ignorò la Commissione e la lasciò in attesa fuori dal suo palazzo per 6 mesi, poi respinse le “5 domande”. Fu una grande umiliazione.

A Cagliari, nel quartiere di Stampace, per reazione fervèttero ancor di più le riunioni dei circoli giacobini allo scopo di creare una coscienza popolare rivoluzionaria. Qui, un anno dopo le battaglia contro i francesi, maturarono i fatti di “Sa Die de Sa Sardigna”: il 28 aprile 1794. Quel giorno, non potendone più degli arresti e delle provocazioni delle guardie del Viceré, il popolo si rivoltò e puntò armi e cannoni contro Castello. La battaglia fu intensa, con morti da ambo le parti, è finì con la conquista della piazzaforte e con lo “Scommiato”, cioè la cacciata da Cagliari dei Piemontesi che vennero imbarcati su navi dirette a Genova. Con questi eventi violenti il popolo sardo entrò nel vortice delle rivoluzioni della fine del 1700 e con la sua rivolta contro i Savoia divenne attore di primo piano nello stesso violento scenario storico per portò all’Indipendenza degli Stati Uniti di America con Giorgio Washington e al Terrore di Parigi con Robespierre. Il re di Sardegna si trovò all’improvviso dentro la Rivoluzione che stava agitando l’Europa; capì la situazione e accettò immediatamente le “5 domande”. Fu la prima pietra storica dell’edificio giuridico che in 150 anni avrebbe sancito l’Autonomia Speciale della Sardegna. In quella storia di rivoluzione e riscossa avvenne un triste fatto emblematico dell’insofferenza del popolo sardo. Due dei Commissari sardi, rappresentanti del movimento patriottico, che si erano recati a Torino e avevano concordato i termini della compartecipazione della Sardegna alla nuova gestione, il marchese della Planargia e Girolamo Pitzolo, accettarono dal re incarichi e privilegi personali, diventando di fatto collaborazionisti dell’apparato di controllo politico straniero. Furono cioè cooptati nel sistema di potere piemontese. Tale posizione era in netto contrasto con le idee più radicali di Autonomia rappresentate da Giovanni Maria Angioy. Ciò creò nei sardi, che si sentirono traditi, un forte risentimento che esplose in una rivolta sanguinosa con il massacro dei due, avvenuto a Cagliari nel luglio 1795.

Il sogno dell’autonomia coltivato dai sardi con “Sa Die de sa Sardigna del 1794” non fu facile da realizzare; dopo l’accettazione delle “5 domande” quel sogno fu represso da frustrazioni dolorose che andarono avanti per tutto il 1800. I sardi, per le doti guerriere che avevano dimostrato, erano diventati, per il re di Sardegna, un esercito di soldati professionisti, fedeli, coraggiosi e micidiali, da utilizzarsi in battaglia. Furono impiegati efficacemente a fianco dei Francesi contro i Russi in Crimea nel 1853-56. Subito dopo Napoleone III accettò di aiutare il regno Sardo nella Seconda guerra d’Indipendenza. Da allora i sardi rappresentarono il nerbo delle forze speciali in tutte le guerre che seguirono. Questo non fu dimenticato.

Fin dall’inizio del 1800, al centro dell’interesse, nella vita civile dei sardi, vi era sempre stata la rinascita dell’Isola, partendo dall’agricoltura. Il dibattito che ne era seguito in sede di governo aveva generato l’editto delle “chiudende”, nella convinzione che la distribuzione al popolo delle terre dei Salti o ademprivi, avrebbe favorito una nuova economia imprenditoriale.

Tale metodo di distribuzione del latifondo reale era stato sperimentato nel regno Unito con qualche successo. In Sardegna fu un fallimento, perché le terre finirono nelle mani dei più ricchi e i poveri rimasero senza pascoli e senza terra libera da coltivare, perché i salti vennero inglobati nel latifondo privato. L’uscita dalla mentalità feudale si rivelò difficilissima. Durante tutto il secolo vennero istituite diverse commissioni parlamentari che svolsero inchieste per trovare una soluzione alla cronica povertà dell’Isola. Nel 1897 venne approvata la prima legge speciale per la Sardegna. Ad essa seguirono le leggi speciali del 1902 e 1914. Alla fine si approdò alla legge nota come “Legge del Miliardo” con cui si disposero spese per l’esecuzione di opere pubbliche finalizzate ad ottenere una maggiore produzione e migliorare il tenore di vita della popolazione.

L’Italia neonata aveva continuato ad utilizzare i sardi in prima linea in tutte le guerre che seguirono. Da quelle in Africa a quelle in Europa. I sardi furono messi al centro del fronte di tutte le battaglie dell’Isonzo nella prima Guerra mondiale, e furono essi, con la Brigata Sassari, i temuti “diavoli rossi”, che protessero le truppe italiane in fuga dai cacciatori austriaci nella ritirata di Caporetto. Dai reduci di quella guerra nacque il Partito sardo d’Azione con un programma Autonomistico. L’Autonomia sarda non fu bene accetta dal Fascismo ma riprese vigore alla fine della Seconda Guerra Mondiale, con la richiesta di introdurre in Costituzione il riconoscimento della Sardegna come regione ad Autonomia Speciale.

Il riconoscimento avvenne il 26 febbraio 1948, con la legge n. 3. I padri Costituenti che presentarono le motivazioni per la concessione dell’“Autonomia Speciale” alla Sardegna furono Emilio Lussu e Renzo Laconi. La sintesi delle motivazioni fu: «Povertà secolare per una storica sottomissione che ne ha impedito lo sviluppo economico».

I Costituenti Repubblicani tennero conto delle diverse istanze provenienti dalle regioni e optarono per concede ad alcune di esse l’Autonomia speciale, nel rispetto del principio di indivisibilità della Repubblica e della sussidiarietà tra le regioni.

Vennero riconosciute “Regioni a Statuto speciale” la Sicilia, la Sardegna, la Val d’Aosta, il Trentino alto Adige ed il Friuli Venezia Giulia.

Le motivazioni erano basate su ragioni storiche, geografiche, economiche, per contenere spinte autonomistiche e per la tutela delle minoranze linguistiche.

Ai Consigli regionali delle regioni elencate venne riconosciuto potere legislativo con la possibilità di produrre leggi concorrenti con lo Stato. Fu altresì riconosciuta a tali regioni la competenza ad imporre tributi propri e la capacità di trattenere per i propri bisogni una percentuale del gettito fiscale di alcune imposte statali che poteva essere anche del cento per cento (per esempio sulla produzione e consumo di energia).

Ora questo privilegio, che fu concesso per necessità, è in pericolo.

Una trentina d’anni fa un nostro conterraneo sulcitano, rappresentante sardista, venne invitato ad una cena politica organizzata dal leghista Roberto Maroni in una città del Nord. In quella cena i leghisti vantarono la loro superiorità morale, economica e politica rispetto al Sud. Il nostro uomo prese la parola e rispose: «…evidentemente non sapete che se voi oggi esistete come popolo libero e ricco lo dovete a noi sardi che nel 1859, quando voi eravate l’estrema periferia dell’impero austro-ungarico, con le battaglie di Solferino, di San Martino e di Magenta, vi liberammo dall’oppressore e vi facemmo assaporare l’indipendenza; con la libertà conquistata da noi avete potuto diventare quello che oggi siete».

Questa fu la posizione del sardo quel giorno. Oggi è vecchio e continua a pensare allo stesso modo; non so se le nuove generazioni abbiano la stessa consapevolezza della nostra storia.

Oggi, 23 settembre 2021, vi è stata ad Iglesias una manifestazione popolare contro il tradimento dei LEA ( i Livelli Essenziali di Assistenza), garantiti dallo Stato ai cittadini.
Un qualche “scienziato pazzo”, uscito da un incubo, ha inserito il territorio del Sulcis Iglesiente in un marchingegno che ci sta respingendo nel passato. Il “passato” deve essere conosciuto, sopratutto nelle sue atrocità, allo scopo di non farlo rivivere.
Nel 1700 il filosofo britannico Edmund Burke formulò un aforisma di saggezza che dice: «Chi non conosce la Storia è condannato a ripeterla».
La frase di Burke ha fatto il giro del mondo e si trova scritta, in trenta lingue diverse, in un monumento nel campo di concentramento di Dachau.
Filosofi e scrittori, grandi e piccoli, hanno scritto libri sull’aforisma di Burke. Due anni fa è stato ripreso in un libro dallo scrittore filosofo George Santayana che ha scritto contro quelli che “non sanno ricordare il passato”, e pochi giorni fa lo stesso concetto è stato ripreso dalla scrittrice sarda Dolores Deidda (“La signora della stazione”), che racconta la saga di una famiglia di Serri tra le due guerre mondiali ed il primo dopoguerra. La scrittrice vi riporta la grande storia a cui sono collegati fatti di vita famigliare variamente influenzati dal fascismo, dalle guerre, dalla cultura tradizionale contadina, e dalla nuova modernità della città.
Fra i tanti episodi, ve n’è uno da cui si può desumere lo stato dell’organizzazione sanitaria del tempo. Alla “signora della stazione”, nel 1940-42, accadde di dover assistere, come levatrice, una passeggera del treno che veniva da Sorgono diretto a Cagliari. La stazione si trovava a Corte, una località a pochi chilometri da Desulo, da Atzara e da Tonara. Il motivo per cui la gravida a termine viaggiava tutta sola per Cagliari era dovuto alla necessità di consegnarsi nelle mani degli Ostetrici specialisti dell’Ospedale Civile San Giovanni di Dio in quanto nel suo territorio non esistevano Ospedali attrezzati. Il motivo del viaggio della speranza era da ricercarsi in un sua malformazione del bacino che avrebbe ostacolato un parto naturale. La donna sapeva benissimo che, se non fosse riuscita a partorire, il bambino si sarebbe incastrato nel canale del parto e lei sarebbe morta assieme al figlio. Questo era il destino di tutte le donne che non riuscivano a partorire naturalmente. La poveretta stava tanto male che non sarebbe mai arrivata a Cagliari. Venne fatta scendere e fu accompagnata nella casa di Eva (la signora che dirigeva la stazione) dove miracolosamente avvenne un parto regolare e mamma e bambino si salvarono.
Questo racconto fa entrare la micro-storia della stazione ferroviaria di Corte nella Grande Storia dell’Umanità.
In quegli anni, a Carbonia, esisteva un ospedaletto in piazza Cagliari, destinato all’assistenza dei minatori per gli incidenti in galleria e, per necessità, venne messo a disposizione anche della popolazione. Allora era giovanissimo medico il dottor Renato Meloni che era chirurgo generale e, in quanto tale, si intendeva anche di ostetricia. Il primario era il professor Ignazio Scalone, patologo chirurgo esperto in chirurgia del cervello per causa traumatica; era esperto in tecnica chirurgica per ferite da guerra del cranio e del cervelletto. L’esperienza l’aveva acquisita al fronte della Prima Guerra Mondiale. Era il chirurgo adatto per assistere i frequenti traumi cranici che avvenivano in miniera a causa del franamento di massi sulla testa degli operai. Chirurghi di questo genere erano idonei ad operare il cesareo, quindi il Sulcis era sicuramente più fortunato, dal punto di vista sanitario, della popolazione del centro Sardegna. Simile fortuna toccava anche ad Iglesias dove operava un ospedale che secondo le cronache del tempo, già nel 1904, in occasione della rivoluzione operaia di Buggerru si occupava di chirurgia complessa.
Nel 1904, ad Iglesias, non si eseguiva ancora il parto cesareo perché quella tecnica era stata ideata da poco e non era ancora stata standardizzata sul territorio nazionale. Infatti la tecnica del cesareo classico venne sistematizzata nell’anno 1900 dal dottor Luigi Mangiagalli di Milano. In realtà il primissimo cesareo venne eseguito a Pavia nel 1876 dal dottor Bianchi Porro, maestro di Mangiagalli. Ma la tecnica di Porro era distruttiva per l’apparato riproduttivo femminile.
Fino all’avvento del taglio cesareo messo a punto dagli italiani le donne morivano in tutto il mondo; nulla le poteva salvare da un parto distocico, né i soldi né il potere. E’ stata recentemente pubblicata una serie televisiva dedicata alla vita della zarina di Russia Caterina la Grande. La ricostruzione storica è accuratamente documentata. In un frammento del film si vede chiaramente l’immagine della giovane moglie dello Zar Paolo I adagiata su un tavolo autoptico, nuda e totalmente eviscerata. Accanto era adagiato il cadavere del neonato. La donna aveva avuto una buona gravidanza ma un parto impedito da un’anomalia del bacino. Nonostante lo stuolo di medici reali indaffarati per salvare la regina ed il principino, la poveretta era comunque morta. Appena spirata le era stato aperto l’addome e l’utero per estrarne il bambino forse ancora vivo. Ma fu tutto inutile. Era già morto.
Era l’anno 1793, l’anno in cui due donne monarca reggevano due imperi: Elisabetta prima d’Inghilterra e Caterina la Grande di Russia. Eppure non bastava essere regine per salvarsi dal destino mortale di un parto distocico.
In quell’anno 1793 Giorgio Washinghton governava gli Stati Uniti d’America e dopo breve tempo moriva per un salasso eccessivo di sangue praticato per curare una faringite febbrile.

Nello stesso anno Robespierre decapitava la regina Maria Antonietta e Luigi XVI.
In quell’anno la Sardegna vide i tentativi dei francesi di invaderla, ma furono fermati dapprima all’istmo di Santa Caterina a Sant’Antioco e poi nella spiaggia di Quartu da truppe raccogliticce guidate dal notaio Vincenzo Sulis, A ciò seguì la cacciata del viceré piemontese dal Castello di Cagliari. In quell’anno a Cagliari non esisteva l’Ospedale civile ma vi erano perlopiù strutture caritative religiose destinate ad ospitare poveri e incurabili. Il Cesareo non si praticava e, anche in Sardegna, le donne gravide con anomalie del canale del parto morivano. Queste anomalie erano frequenti perché erano molto diffusi il rachitismo, la tubercolosi ossea, ed i deficit alimentari.
Bisogna precisare che esisteva una tecnica chirurgica che si eseguiva esclusivamente a mamma morta nel tentativo di estrarne il bambino che poteva essere ancora vivo.
Tutto il mondo cristianizzato si adeguava alla bolla papale emanata da Paolo V nel 1615. In essa si disponeva che nella circostanza di un parto distocico il medico stava in presenza fino alla morte della donna. Appena certificata la morte egli doveva procedere all’apertura dell’addome ed estrarne il bambino. Il prete doveva procedere all’immediato battesimo. In assenza del medico questa funzione chirurgica veniva assunta dalla levatrice. In assenza della levatrice la procedura doveva essere portata a termine del prete che, estratto il bambino, doveva affrettarsi a battezzarlo.
Poi nel 1876 il dottor Bianchi Porro di Pavia ebbe una illuminazione: eseguì l’asportazione dell’utero intero a “madre viva” per estrarne il bambino senza traumatizzarlo. La tecnica che aveva ideato non prese piede ma fu utile al suo allievo Luigi Mangiagalli per mettere a punto la sua nuova tecnica nel 1900.
Fino ad allora la prospettiva di salvezza per le donne di tutto il mondo era identica, sia che fossero delle povere popolane o potenti regine.
In quell’anno 1900 il dottor Luigi Mangiagalli dimostrò che con la sua nuova tecnica di cesareo, eseguito a “madre viva”, poteva salvare sia la madre che il bambino e consentiva di salvare anche l’utero per future gravidanze.
Questa lunga premessa serve a dimostrare quanto, fino a poco tempo fa, fosse terrificante il destino delle madri con difetti del canale del parto. Questo orrore si concluse in Sardegna negli anni a ridosso della Prima Guerra mondiale con la diffusione degli Ospedali territoriali. Fino ad allora l’assenza di una valida rete ospedaliera imponeva alle donne della provincia di imbarcarsi sul treno, in pieno travaglio, per arrivare a Cagliari dopo molte ore di viaggio.
La nascita degli Ospedali territoriali fu un miracolo. Da allora il terrore è cessato, ma un pericolo nuovo incombe: la destrutturazione degli Ospedali con la chiusura di reparti.
Nel Sulcis Iglesiente, nella ASL 7, sta avvenendo un fenomeno che ci sta respingendo nel passato. Si stanno impoverendo gli Ospedali sia di Medici che di Infermieri e strumenti.
A Carbonia, dopo la chiusura della Pediatria si è proceduto alla chiusura della Ostetricia e Ginecologia. E’ stata chiusa l’Anatomia Patologica impedendo la diagnosi immediata in corso di un intervento chirurgico programmato con l’intento di escidere radicalmente un tumore.
L’Emodinamica in Cardiologia è chiusa al 70 per cento e durante la sera, la notte, e nei giorni festivi non si possono operare gli infarti. Chi arriva in Ospedale fra le 8.00 e le 16.00 può essere operato. Chi ha l’infarto durante la notte o il sabato e la domenica e nei festivi deve essere trasferito a Cagliari e sperare che ci arrivi vivo.
La Radiologia è ridotta ai minimi termini sia in specialisti che in tecnici. Similmente avviene per la Dialisi. I sei Medici in organico sono ridotti a tre. Questo bassissimo numero genera eroi (i Medici) e pericoli (per i malati).
La Chirurgia Generale ha dovuto subire la chiusura dell’Endoscopia digestiva che è imprescindibile per l’individuazione della fonte di emorragie dal tubo digerente e la crescita dei tumori maligni (che possono trovarsi in tutto il percorso dall’esofago all’ano); per non parlare poi della riduzione dei posti letto resasi necessaria per la scarsità di personale.
Le stesse difficoltà soffrono l’Anestesia e la Rianimazione. Ne consegue la drastica riduzione delle sedute operatorie (una la settimana) per mancanza di Specialisti e Infermieri.
Ad Iglesias il disastro è immane. Oltre alla chiusura di servizi e alla riduzione dei posti letto, avverrà presto la messa in pensione del Primario di Chirurgia Generale. Con la sua uscita di scena quel reparto cesserà di funzionare.
Per effetto di questo insieme di carenze adesso esiste la pericolosissima condizione per cui l’Ostetricia di Iglesias è privata del supporto della Chirurgia generale. Supporto che è assolutamente necessario nel caso in cui un parto cesareo venga complicato dalla insorgenza di lesioni arteriose e viscerali mortali.
Questa coesistenza di deficit strutturali dovrebbe immediatamente indurre a riorganizzare con urgenza la Chirurgia generale con un Primario, oppure a trasferire la Ostetricia al Sirai di Carbonia dove è ancora libera l’antica sede posta al III piano. Così le pazienti operate in Ostetricia, in caso di complicazioni chirurgiche, verrebbero messe sotto la protezione della Chirurgia generale che è ancora bene organizzata ed è in grado di dare immediata assistenza in caso di patologie ginecologiche associate a malattie chirurgiche addominali, o urologiche o vascolari.
Le vicende politiche ed amministrative pubbliche che si sono succedute dal 1992 ad oggi hanno precipitato il territorio del Sulcis Iglesiente in un passato di oscurantismo sanitario che ci fa vivere in uno stato di pericolo incombente.
La facilità con cui siamo arretrati così pericolosamente fa supporre che questo degrado non sia solo derivato da incapacità amministrativa centrale ma anche da una assurda inconsapevolezza popolare di questi fatti.
E’ necessario ripartire dalla Storia passata e conoscere le atrocità in campo sanitario perpetrate nei secoli passati per capire quali strumenti abbiamo per non doverle rivivere.
Aveva ragione Edmund Burke: «Chi non conosce la Storia è condannato a riviverla» con tutti i suoi risvolti disumani. E’ necessario farsi promettere dai politici del futuro la restituzione di tutto il maltolto.
Oggi, a conclusione della enorme manifestazione popolare incoraggiata dalle componente dei pensionati di SPI CGIL, CISL, UIL, ad Iglesias, il sindaco Mauro Usai ha sintetizzato le ragioni della protesta in alcuni precisi punti:
1 – Il degrado degli Ospedali e della sanità territoriale.

2 – La sottrazione di personale sanitario a favore del centro Covid del Santissima Trinità, che dovrebbe rientrare immediatamente nei nostri Ospedali subito dopo la chiusura del Centro Covid cagliaritano.

Inoltre:
3 – ha dichiarato chiuso il tempo dell’invio di istanze a protezione della nostra sanità perché tutte le formalità procedurali presso le istituzioni regionali sono state già esperite. In mancanza di provvedimenti soddisfacenti si passerà a proteste direttamente nel capoluogo.
4 – Ha poi dichiarato testualmente: «E’ finito il tempo dei campanili, uniti saremo più forti».
5 – E ha concluso dicendo «Non ci interessa avere tre Ospedali non funzionanti; ce ne basta uno, ma che funzioni».
Tale discorso è stato tenuto in rappresentanza dei 23 sindaci del Sulcis Iglesiente, che hanno sottoscritto il “Patto per la Salute” formulato dai tre sindacati CGIL, CISL, UIL, e che è stato inviato al presidente della Giunta regionale Christian Solinas ed al Commissario dell’ARES Massimo Temussi.

Mario Marroccu

 

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Venerdì 28 aprile, nel giorno in cui si festeggia sa Die de sa Sardigna, l’associazione culturale ArcoStudio si presenta all’opinione pubblica dedicando l’intera giornata all’inaugurazione dell’omonimo spazio di via Portoscalas 17 a Cagliari e alla presentazione dell’archivio teatrale e della biblioteca ivi custoditi. 

L’appuntamento è a partire dalle ore 11.00. L’attore e scrittore Mario Faticoni, presidente della nuova associazione, leggerà brani da “Procurad’e moderare” di Luciano Marrocu e dall’autobiografia di Vincenzo Sulis.

Dopo l’inaugurazione mattutina, la giornata sarà animata da una serie di visite e omaggi di artisti e operatori culturali, tra i quali rappresentanti dell’Ersu e della Soprintendenza archivistica, che ha decretato l’interesse storico dell’archivio.

Lo stesso padrone di casa, alle ore 18.00, aprirà una serie di interventi di affettuoso sostegno all’iniziativa da parte di amici e soci della neonata associazione.

Nell’arco della giornata sarà possibile provvedere al tesseramento per l’anno 2017 a un costo promozionale.